Nella cittadina di Empire, sorta dal nulla nel Black Rock Desert del Nevada, la vita di Fern sta cambiando radicalmente. Il 31 gennaio del 2011 infatti, questo posto diventerà una città fantasma.
Si perchè Empire è un census-designated place, che in America individua quelle località prive di un’amministrazione comunale legalmente riconosciuta. E’ insomma una terra di nessuno dove le persone vivono in aggregazione, principalmente per motivi di lavoro.
Quasi cento operai lavorano qui, nella grande miniera di gesso e nello stabilimento di cartongesso che dal 1923 serve la nazione. Vivono nelle case di proprietà dell’azienda, affittate a prezzi stracciati.
Una delle ultime città aziendali d’America è sull’orlo del fallimento e i segnali sono evidenti ovunque, passeggiando per le quattro vie del centro. Le case trascurate, le buche per le strade, la chiesa e i negozi scrostati dal tempo e ormai anche il piccolo campo da golf costruito per lo svago dei dipendenti ha l’aria trasandata, come quella di un volto mal rasato.
E poi ci sono i figli, la scuola e gli insegnanti che si sono trasferiti qui con spirito missionario. I negozi, i bar e i ristoranti con le persone che ci lavorano. E gli anziani, i primi lavoratori della miniera che hanno scelto di restare in questo luogo arido, ma in qualche modo famigliare.
Insomma, tutto l’indotto di una piccola, minuscola cittadina che non appartiene alle carte geografiche sta per essere spazzato via. Empire è la più bizzarra cittadina sorta nel bel mezzo del deserto del Nevada, racconta chi ci è stato.
“Gli uomini vanno e vengono, le città nascono e muoiono, intere civiltà scompaiono; la terra resta, solo leggermente modificata. Restano la terra e la bellezza che strazia il cuore, dove non ci sono cuori da straziare… a volte penso, senz’altro in modo perverso, che l’uomo è un sogno, il pensiero un’illusione, e solo la roccia è reale. Roccia e sole”
Edward Abbey, “Desert solitaire. Una stagione nella natura selvaggia”
Ecco, queste sono le premesse di Nomadland, il film di Chloé Zhao, tratto dall’omonimo libro-inchiesta di Jessica Bruder. Presentato in concorso allo scorso Festival di Venezia e vincitore indiscusso del Leone d’Oro, può essere indicato come un autentico manifesto degli odierni nomadi-fulltimers di cui andiamo orgogliosamente fieri.
Anche se Nomadland parla in parte della crisi economica americana e della condizione delle classi sociali più deboli e meno tutelate, in realtà il tema emergente è quello del desiderio di rinascita e della ricerca di una felicità autentica.
La nostra protagonista, incarnata dalla splendida Frances Mc Dormand, diventa una nomade fulltimers suo malgrado, alla ricerca di lavori stagionali tra Amazon e fast-food ma scopre nel suo viaggio interiore che quella in fondo è la vita che ha sempre desiderato.
Fern attraversa l’America con il suo van passando dalle Badlands del South Dakota al deserto del Nevada, fino al Pacific Northwest ma il suo viaggiare nomade non la porta a perdersi ma piuttosto a riscoprire se stessa e le sue più autentiche emozioni attraverso paesaggi meravigliosi e incontri speciali “on the road”.
Per girare questo film che molto ha in comune con un documentario sociale, la regista e i protagonisti ( Francis Mc Dormand e David Strathairn ) hanno trascorso con una piccola troupe cinque mesi, viaggiando in furgone e roulotte attraverso sette stati americani.
Sul loro cammino hanno incontrato molti fulltimers e hanno ascoltato le loro storie per capire a fondo questa scelta di vita. Alcuni nomadi come Linda May, Swankie e Bob Wells, hanno partecipato attivamente alle riprese del film, recitando nella parte di se stessi.
Accompagnato dalle musiche struggenti del pianista Ludovico Einaudi, Nomadland è uno di quei film che devono essere assorbiti nel profondo della nostra anima.
Bisogna lasciare scorrere le immagini che inesorabilmente ci scuotono dal profondo e ci fanno interrogare sul senso della vita ma ancora di più sul senso delle nostre misere esistenze fatte di routine e quotidianità e spesso tristemente rinchiuse tra quattro mura che ci ostiniamo a chiamare “casa”.
In inglese esistono due parole ben distinte che definiscono ciò che noi chiamiamo semplicemente “casa”. House è la casa di mura, l’edificio vero e proprio. Home è ciò che ognuno di noi identifica come casa e può essere un posto, una persona, un veicolo o tutto ciò che veramente ci faccia sentire veramente a casa.
Quando io e Amelie abbiamo deciso di lasciare il nostro lavoro e la nostra casa per vivere in camper la maggior parte dei nostri amici e dei conoscenti ci hanno definiti “coraggiosi” ma oggi, dopo otto anni di vita “on the road” possiamo considerare “coraggiosi” tutti coloro che restano immobili, senza interrogarsi sulla qualità e sull’alienazione della vita di tutti i giorni. Quella, per intenderci, che la societa “civile” ci vuole imporre con regole e doveri ben precisi.
Noi preferiamo appartenere alla schiera sempre più folta degli esseri umani che vagano, senza vincoli nè legami. Abbandonando l’idea di un ritorno e abbracciando la folle utopia della libertà. Cercando per quanto possibile di non seguire i dettami del consumismo moderno ma di vivere l’idea di un’economia circolare, in cui ci si aiuta a vicenda con rinnovata solidarietà.
Il Telluride Film Festival in Colorado ha cancellato la sua 47esima edizione a causa della pandemia. Per presentare il film che avrebbe dovuto partecipare al concorso è stato organizzato un drive-in a Los Angeles con l’intervento della regista, dei protagonisti e di molti nomadi fulltimers invitati per l’occasione.
In attesa che questo splendido film esca in Italia a dicembre, non ci resta che salutarci con le parole della protagonista, che nel film dice addio ad un vecchio amico…” Ci si vede sulla strada ! “